Per chi ama il cinema, New York è una tappa obbligata. In ogni angolo della città, soprattutto a Manhattan, sono riconoscibili gli scenari visti in quasi tutte le serie TV più famose: da Friends a Law and Order. Possiedo un attico a New York, e l’ho vista centinaia di volte, ormai la conosco praticamente a memoria. I luoghi che prediligo sono i musei. Dal MoMa al museo americano di storia naturale (dove si vive in prima persona la notte di Ben Stiller), fino al Met, il mio preferito.
Amando i cartoni animati, nel divertente lungometraggio Madagascar ho notato che New York è stata rappresentata magnificamente. A parte lo zoo di Central Park dove, mi spiace deludervi, non vi sono i leoni e le zebre, e la star principale si chiama Alex, ma non è un felino: è un leone marino! Almeno, era così l’ultima volta che vi sono stato.
I pinguini sì, ci sono. Hanno un’ampia zona d’acqua che è visibile dal piano della passeggiata del parco, e un altro vascone interrato dove è possibile vederli come in un acquario. Una splendida scena di un omicidio avvenuta proprio in questa parte dello zoo è stata rappresentata nel libro di Ellis: American Psycho. Devo dire che è molto realistica perché la descrizione del buio, gli angoli in cui non si vede nulla, è veritiera.
Manhattan, precisamente Time Square, è l’epicentro, l’ombelico del mondo. La notte è illuminata dalle insegne dei musical, dei vari cartelloni pubblicitari, e il caos è palpabile. A volte fastidioso, ma se si vuole girare New York è meglio che si accantoni l’idea di non ricevere almeno una spallata. In inverno il freddo è gelido: dal fiume Hudson arriva un vento sferzante direttamente dall’Atlantico che entra nelle ossa delle persone, e non capisco come si possa far credere che le donne vadano in giro per la strada, di notte, con sandali gioiello ai piedi, mini abiti e solamente un soprabito a coprire le braccia nude. Ma il clima in TV è una cosa che a quanto pare, sfida le leggi della natura.
Non si mangia benissimo nei ristoranti definiti “italiani”, anche nella parte di Little Italy, dove di questi posti ce ne sono a decine. Sono una ridicola copia delle taverne che noi veri italiani, per fortuna, abbiamo in ogni angolo delle città. I proprietari la maggior parte hanno nomi italiani, ma sono eredi di nonni, bisnonni e avi che a loro volta sono migrati, agli inizi del novecento, e chi porta avanti le tradizioni culinarie ha dimenticato il vero sapore di un ragù alla bolognese, o di un sugo alla marinara. Insomma: sono imitazioni. E la maggior parte delle volte mal riuscite.
E a proposito di luoghi comuni: detesto quando, nell’incontrare qualcuno e informarli che sono italiano, si atteggiano verso di me con la mano chiusa a “becco d’anatra”, sventolandomela davanti, credendo che tutti, in Italia, gesticolino in quel modo ridicolo. Colpa dei film, dei tentativi idioti di farci sembrare tutti dei Don Corleone: la maggior parte degli americani ci ha rilegato a dei cliché cinematografici. Pazienza. Non ho voglia ogni volta di ribadire che non esiste solo Venezia, Firenze, Roma e Capri. E non ho voglia di far capire che non c’è bisogno che mi si parli in spagnolo, visto che lo spagnolo e l’italiano non sono proprio la stessa lingua. Mi è capitato. Lasciando la carta di credito per un pagamento, in un ristorante, il cameriere mi ha ringraziato della mancia rivolgendosi a me in spagnolo. Aveva visto il mio nome sulla carta. Gli ho riferito che ero italiano, e lui ha semplicemente risposto: “è lo stesso, siete vicini.” No. Non è lo stesso. Il ragazzo era convinto, come buona parte di quel popolo, che anche in Europa si parla solo ed esclusivamente un idioma: lo spagnolo. Credono che tutti lo sappiano parlare, che, essendo le nazioni molto vicine tra loro, siamo monolingua. Gli ho fatto ironicamente notare questa cosa, riferendogli che se il suo metro di misura era quello, allora poteva rivolgersi a me in tedesco, dato che l’Austria confina con noi. O in francese per lo stesso motivo. Gli ho fatto una lezione di geografia, praticamente. Gli serviva.
New York: la città che non dorme mai. Così la definiva Frank Sinatra. Non è proprio vero. La mattina, prima degli orari d’ufficio, le strade principali sono tranquillissime. Il caos arriva verso le 7 e 30, quando si smistano i pendolari dalle varie zone: centinaia di persone escono in massa dalla Central Station. La maggior parte è gente che arriva dai sobborghi, e che deve raggiungere gli uffici servendosi delle metropolitane, dei taxi.
Central Park è stupendo. Adoro stendermi su quei prati a braccia incrociate dietro la testa e godermi il sole, o stare ore e ore a osservare bellissime ragazze che fanno jogging, bambini che giocano, persone che portano a spasso il cane. Per i newyorkesi, Central Park è una sorta di limbo, un posto dove vanno per rilassarsi. È curioso che a pochi metri da un prato, da una zona tranquilla, vi sia perenne traffico, rumori, uomini d’affari che fanno girare l’intera economia mondiale. I tassisti poi, sono uno spasso. La maggior parte sono asiatici, indiani. Parlano male l’inglese, hanno l’accento del loro paese e se gli dai corda raccontano aneddoti interessanti e divertentissimi.
In estate New York è una serra. Il caldo è asfissiante, e dalle grate delle strade escono rivoli di vapore dei vari ristoranti etnici che rendono l’aria irrespirabile. E i negozi tengono i condizionatori a una temperatura che darebbe fastidio persino ai pinguini dello zoo. Non hanno proprio le mezze misure.
Gli spettacoli di Broadway sono meravigliosi. La maggior parte sono storici e le messe in scena sono sempre le stesse, ma al contrario delle rappresentazioni teatrali che fanno da noi, esagerano (in senso positivo) anche in quello. Costano molto, non sono alla portata di tutti, ma almeno uno non dovete perdervelo: The Lion King. Per chi ha visto il film, sono parole al vento se dico che è spettacolare e coinvolgente. Per chi invece non ha mai visto il Classico della Disney, beh: cosa state aspettando?
Ammetto che New York è una città splendida, sotto un certo punto di vista. Lasciamo stare la povertà, che purtroppo è una piaga che colpisce l’intero mondo. Parlo della città in sé, della parte storica, di quella cinematografica. Viverci per più di un paio di mesi? Non lo farei mai. Non riesco a fermarmi più a lungo. Anche se credo che se aprissi un ristorante in centro a Manhattan, non solo farei ancora più fortuna, ma delizierei in maniera strepitosa quei palati che credono di aver mangiato italiano. Credono. Poveri loro.
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