Mio padre si chiamava Muzio, mia madre Costanza. I miei due fratelli si chiamavano Lorenzo e Jacopo. Lorenzo era il più grande, Jacopo il più piccolo: aveva quattro anni meno di me, e io ero il figlio di mezzo. Jacopo era il mio preferito, tra i due, per il semplice motivo che da lui non ricevevo rimproveri. Essendo l’ultimo della famiglia Dei Soldati, veniva trattato come un principe, ma a nessuno di noi tre, in realtà, è mai mancato l’affetto dei genitori, tanto meno il rispetto.
Mio padre era un gran lavoratore, serio e intelligente con un buon fiuto per gli affari, ma anche sensibile e molto presente. Era un artista: realizzava splendidi arazzi e sistemava quelli dismessi o lasciati a marcire in qualche scantinato per poi rivenderli come nuovi, e riportava all’antico splendore anche altri oggetti come mobilia o carri.
Mia madre era una donna bellissima e paziente, dote che le ha permesso di crescere tre maschi con la stessa dose di disciplina e amore. Avrebbe voluto una femmina, ma non si è mai lamentata di aver messo al mondo tre uomini.
Lorenzo era responsabile e imparava in fretta tutto quello che c’era da sapere del lavoro di mio padre. Fu lui a prendere il suo posto nella bottega di artigiano, quando si ritirò per i vari acciacchi della vecchiaia. E quando si è sposato, è riuscito a tirar su una discreta fortuna che ha permesso a tutta la nostra famiglia una vita decorosa.
Jacopo era curioso, dolcissimo. Di indole era un giocherellone incline alla distrazione. Gli piaceva bighellonare per Roma coi suoi amici piuttosto che dare una mano in bottega, e spesso si cacciava nei guai per colpa di qualche bacio di troppo rubato alla donna sbagliata che gli procurava minacce di morte da parte del legittimo marito. Ma non gliene ho mai fatto una colpa: d’altronde, somigliandomi moltissimo, come me aveva un enorme successo con le donne, e ne era consapevole, il bastardello presuntuoso.
Quante volte mi sono azzuffato con lui per le strade di Roma, allontanando capannelli di vigliacchi gelosi che lo attendevano agli angoli per fargli ingoiare la spocchia… che ridere a pensarci adesso! E poi, fieri di aver sgominato una “banda di quartiere”, andavamo a berci litri di vino scadente in una decadente locanda accanto al Tevere. Fu in uno di quei momenti che venni a conoscenza di Carpazia, ma questo è un altro discorso che un giorno o l’altro approfondirò.
Mi veniva naturale assecondare Jacopo nelle sue scorribande, però tenevo sempre un piede oltre la linea che separa il fratello serioso e maggiore da quella dell’amico. Questo doppio ruolo mi consentiva di fargli da confidente e confessore, e dargli i giusti consigli per evitare che un giorno o l’altro, venisse alle mani con l’individuo sbagliato.
Lui non l’ha mai saputo, ma più di una sera l’ho protetto dai coltelli di boriosi ubriaconi che non sopportavano la tipica arroganza che contraddistingueva i nostri caratteri.
Con lui trascorrevo molto tempo all’aria aperta: andavamo a caccia, facevamo lunghe cavalcate nei boschi e spesso non tornavamo a casa, la notte. Accendendo falò sulla riva di qualche ruscello o nelle radure, passavamo il tempo raccontandoci i nostri sogni, le paure, le conquiste e ciò che ci aspettavamo dal futuro.
Io? Ero il sognatore della famiglia. Da quando ho avuto l’età della ragione ho lavorato con mio padre, e all’inizio mi piaceva pure. Lorenzo all’epoca era il mio superiore; prendevo ordini da lui e con lui facevamo consegne per la città a casa di qualche riccone che ci consentiva di attendere il pagamento non nella corte, come era consueto ai vari fattorini, ma addirittura concedendoci di entrare nelle cucine per scroccare un pasto gratuito, cosa che non ci è mai dispiaciuta.
Oltre a lavorare, naturalmente, avevo i miei progetti. Come Jacopo, anch’io correvo dietro a ogni sottana. E devo ammettere che o correvano lente, o fingevano di sfuggirmi, perché ne ho afferrate parecchie!
Da ragazzino ero il più terribile dei tre, e questo lo dico con cognizione di causa perché mio padre me lo ripeteva spesso e volentieri. Mia madre a volte non sapeva se ridere o piangere delle mie pungenti osservazioni, rendendola fiera della mia sagacia, ma costringendola spesso a scuotere il capo per lo sfinimento di non sapere cosa ribattere.
Non mi sono mai permesso di offendere i miei genitori per una rinuncia a qualche mia richiesta, o di prendere congedo prima che la ramanzina avesse fine, limitandomi a restare in piedi e dritto fino alla fine del classico discorsetto sul perché io avessi sbagliato. La maggior parte delle volte non ascoltavo nemmeno, limitandomi ad annuire quando coglievo un: “hai inteso?” o un “è chiaro?” e tutto finiva lì. Questo quando ero adolescente. Quando ero un frugoletto prepotente e incontenibile, invece, volavano bei sganascioni. Per ogni schiaffo ricevuto per testardaggine, per aver puntato i piedi a terra, ora dico grazie, perché mi sono stati dati sempre per una ragione, sempre per un motivo. Non c’è cosa migliore per un bambino piccolo e incline a cacciarsi nei guai che una sberla data nel momento giusto. Ovviamente, senza esagerare. A volte non erano vere e proprie punizioni corporali, ma semplicemente umiliazioni che mi facevano inghiottire la superbia. E valevano più di mille discorsi, credetemi.
Molti di voi non saranno d’accordo, e parlare di schiaffi o di pedate nel sedere, coi tempi che corrono, equivale a discutere di violenza sui minori. Gli psicologi infantili, gli educatori sociali, i giudici del mondo, certe volte dovrebbero fermarsi a riflettere di cosa si sta parlando. Ci sono famiglie che abusano della violenza: vero. Ci sono genitori che preferiscono picchiare i figli o denigrarli continuamente, piuttosto che spiegar loro come ci si comporta: vero. E in questi casi, si tratta di genitori che non hanno ben chiaro cosa significa crescere una famiglia. Gente disturbata ce n’è tanta, in giro, e purtroppo, molti di questi individui mettono al mondo dei figli. Sono casi particolari, perché ci sono anche realtà in cui una famiglia è normale, e un bambino è talmente fuori controllo che merita, nel momento in cui esagera, una bella sculacciata.
Non sto parlando di casi in cui il bambino in questione abbia problemi di personalità o è iperattivo, o ha una qualunque patologia particolare, ma solo di monelli viziati, testardi e puntigliosi. Quindi, se siete quel tipo di persona che da un filo di paglia ne fa un tronco, lasciate perdere questa mia affermazione: abbiate pietà della mia intelligenza e non fatemi scuola di pensiero, perché su questo punto sono irremovibile.
Valutate bene le mie parole: parlo di educazione tra persone civili, non di tortura. E parlo di bambini che non hanno la facoltà di capire le loro azioni nel bene e nel male, avendo ancora quella parte di concetto poco sviluppata a livello biologico.
Girando per strada o anche solo andando a fare la spesa, a volte mi capita di vedere come si comportano certi genitori moderni che hanno appreso l’arte del crescere i figli dai libri di sociologia, dai consigli degli amici o dai programmi TV.
Non è raro che senta un bambino di appena cinque, sette anni, apostrofare la madre o il padre con brutte parole, fare capricci assurdi e deliranti o impuntarsi perché gli viene rifiutata una certa cosa. L’istinto mi ha sempre suggerito di intervenire di persona, e mi ci vuole un training autogeno non indifferente per rinunciare a dare io stesso una pedata nel culo al bambino maleducato, e del coglione al padre.
Uno perché non li sopporto, due perché leggo spesso negli occhi dei suddetti genitori la fatica e la frustrazione del loro discutibile metodo di educazione. Hai seminato vizi, raccoglierai un teppista. Non è uno schiaffo dato al momento e per il giusto motivo che renderà violenti i figli: sono le concessioni per non sentirli più lamentare. Sono i vizi che si elargiscono come se fossero caramelle, e la maggior parte delle volte, lo si fa perché si è sfiniti.
Se penso al poco che avevo io e a quanto ne ho goduto nell’ottenerlo. Vedo invece ciò che hanno ora i ragazzini e che vogliono sempre di più, sempre di più, prosciugando le famiglie.
Bisogna insegnar loro a guadagnarselo, ciò che desiderano.
Il mio primo cavallo l’ho comprato di tasca mia, lavorando mesi per mio padre (e ingraziandomi le gentildonne che lasciavano laute mance dopo un sorriso o qualcos’altro…) e vi assicuro che ne sono stato orgoglioso nell’animo.
Il telefono costoso, la macchina, l’ultimo videogioco all’avanguardia: fateglieli guadagnare. Vi odieranno per un tempo limitato, quello che consentirà loro di capire la differenza tra diventare un vero uomo, o restare un mammone per sempre.